Greenpeace denuncia il paradosso delle bioplastiche compostabili che non si compostano

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Greenpeace denuncia il paradosso delle bioplastiche compostabili che non si compostano

Greenreport

Greenpeace denuncia il paradosso delle bioplastiche compostabili che non si compostano

«La maggior parte dei rifiuti organici in Italia finisce in impianti che non sono in grado di trattare efficacemente i materiali in plastica compostabile, che così finiscono in inceneritore o in discarica»

L’organico rappresenta la frazione di rifiuti urbana più raccolta in Italia (39,3% in peso) ma, come documenta l’ultimo report Ispra in materia, rientra anche tra quelle che soffrono le maggiori criticità di gestione, per più motivi: dal progressivo peggioramento nella qualità della raccolta differenziata – dove concorrono gli scorretti conferimenti da parte dei cittadini – alla carenza sul territorio degli impianti industriali più adeguati a valorizzarla, ovvero quei biodigestori anaerobici che dalla Forsu sono in grado di ricavare biometano oltre al digestato da poter trasformare in compost.

Paradossalmente, i biodigestori però sono anche gli impianti che sembrano meno in grado di gestire una frazione crescente di rifiuti che finiscono nell’organico: le bioplastiche compostabili, in particolare quelle rigide come piatti e bicchieri usa e getta. Una problematica nota da anni tra gli addetti di settore, contro la quale torna oggi a puntare l’indice il nuovo rapporto elaborato dall’Unità investigativa di Greenpeace Italia.

Il rapporto arriva a pochi giorni dai risultati di una ricerca condotta da Cnr, Ingv e Università di Pisa, in cui si afferma che due polimeri di plastica biodegradabile (Pla e Pbat) – nell’arco di sei mesi – non mostrano una degradazione significativa se posti in acqua di mare o sabbia; risultati dunque molto diversi rispetto a quelli ottenuti nel 2019 da uno studio analogo  sulla degradabilità in ambiente marino dei sacchetti in bioplastica Mater-bi, per i quali si osservò una biodegradabilità simile a quella della carta (non a “impatto zero”, comunque).

Questo però in teoria rappresenta un falso problema. Le bioplastiche non rappresentano affatto una soluzione all’inquinamento marino da plastica – come conferma la stessa Assobioplastiche, oltre all’Unep –, semplicemente perché non sono fatte per essere disperse nell’ambiente, proprio come le plastiche tradizionali.

Le bioplastiche costituiscono semmai un’importante innovazione tecnologica – e una filiera industriale che vede l’Italia tra i leader a livello globale – che permette di sostituire, in alcuni casi, plastica da fonti fossili con plastica da fonti rinnovabili. Una volta divenute rifiuti devono dunque essere raccolte in modo differenziato (ad oggi insieme agli scarti alimentari) per poi essere gestite all’interno di impianti industriali di compostaggio o biodigestione; il vero problema è che neanche al loro interno le cose sembrano funzionare come dovrebbero.

Come documenta Greenpeace attingendo ai dati del Catasto rifiuti Ispra, gli impianti dove il cuore del processo è la digestione anaerobica trattano ad oggi «il 63% della frazione umida (di cui il 56% negli impianti integrati e il 7% negli impianti di digestione anaerobica). Peccato che sia proprio quest’ultima tipologia di impianti (digestione anaerobica integrata e non) ad avere i maggiori problemi a trattare la “plastica green”».

«Negli impianti anaerobici non si degradano perfettamente neppure i sacchetti in plastica compostabile, figurati la plastica compostabile rigida», commenta Mario Grosso del Politecnico di Milano, ma anche i ben più numerosi impianti di semplice compostaggio non se la passano molto meglio nel trattare le bioplastiche rigide.

Come mai? Un prodotto usa e getta, per essere definito “compostabile”, deve superare determinati test ottenendo una certificazione conforme alle norme UNI EN 13432 o UNI EN 14995, per rispettare specifici criteri di biodegradabilità e compostabilità. Di fatto però «le certificazioni fatte in laboratorio, che dovrebbero garantire che le plastiche compostabili in commercio si biodegradano, non sempre riproducono correttamente le condizioni che si trovano negli impianti», argomentano da Utilitalia, con le principali difficoltà che si concentrano sui tempi effettivi di biodegradazione, sulla percentuale di bioplastiche rispetto all’ammontare di rifiuti organici complessivamente trattati negli impianti, oppure sulle dimensione delle bioplastiche trattate.

«Nella disparità tra quel che è testato in laboratorio e quel che sono in grado di realizzare gli impianti si racchiude gran parte del problema», conferma il chimico dell’Università di Firenze Ugo Bardi. Si arriva così all’esito paradossale: «La maggior parte dei rifiuti organici in Italia finisce in impianti che non sono in grado di trattare efficacemente i materiali in plastica compostabile, che così finiscono in inceneritore o in discarica», come sottolineano da Greenpeace.

Tutti elementi che non sembrano essere stati presi adeguatamente in considerazione dall’Italia quando ha recepito la “propria” versione della direttiva europea Sup sulle plastiche monouso, con Greenpeace a denunciare da tempo come questo esponga il nostro Paese al rischio di essere sottoposto a una procedura d’infrazione.

«Come dimostra la letteratura scientifica internazionale, i maggiori benefici ambientali si ottengono abbandonando l’usa e getta, indipendentemente dalla tipologia di materiale», chiosa Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace.

Anche per le bioplastiche è però certamente possibile migliorare i profili di sostenibilità in termini di ciclo di vita, ma per raggiungere questo traguardo è indispensabile che i produttori intensifichino il confronto con chi effettivamente raccoglie e avvia a recupero queste frazioni una volta divenute rifiuti. Un appello partito ormai tre anni fa dalla Toscana, ma che ancora non ha portato i suoi frutti.

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