Tari, ecco perché la gestione dei rifiuti urbani ha costi tanto diversi lungo lo Stivale

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Tari, ecco perché la gestione dei rifiuti urbani ha costi tanto diversi lungo lo Stivale

Greenreport

L’analisi della Corte dei conti

Tari, ecco perché la gestione dei rifiuti urbani ha costi tanto diversi lungo lo Stivale

Al nord maggiori livelli di raccolta differenziata hanno effetti benefici sulla spesa, mentre al centro-sud accade il contrario

Di Luca Aterini

La Corte dei conti ha approvato la relazione Prime analisi sulla qualità della spesa dei Comuni sulla gestione di alcuni rilevanti servizi comunali – funzioni di amministrazione, gestione e controllo, polizia locale e rifiuti –, dalla quale emerge un quadro profondamente disomogeneo a livello territoriale in termini di impiego di risorse e qualità dei servizi.

Si prenda ad esempio la gestione dei rifiuti urbani, che vale circa 10 miliardi di euro l’anno riscossi tramite la Tari. Ne generiamo ogni anno circa 30 mln di ton: una piccola parte a fronte di una produzione totale di rifiuti pari a oltre 184 mln di ton, contando gli speciali, ma di certo si tratta della parte più visibile nonché quella che ricade nell’ambito della privativa comunale, e che dunque dipende direttamente dalla gestione della mano pubblica.

«Il servizio rifiuti – argomenta nel merito la Corte – rientra tra i principali compiti assegnati ai Comuni e comporta l’impiego di notevoli risorse con il vincolo della integrale copertura dei costi, per cui a determinate condizioni e in linea teorica potrebbe essere considerato neutrale in termini di equilibrio. In realtà gli extra costi per inefficienze si scaricano sul cittadino utente piuttosto che sul bilancio dell’ente».

Secondo l’analisi della Corte dei conti, nelle Regioni a statuto ordinario il costo del servizio rifiuti ammonta mediamente a euro 317€ per tonnellata, ma la fascia di costo è molto ampia: un quarto dei territori comunali si spendono meno di 249€, mentre in un altro quarto si spendono più di 415€ procapite.

«Emerge chiaramente – osserva la Corte – una forte differenza fra la maggior parte delle Regioni del nord e quelle del centro e del sud. La raccolta e smaltimento di una tonnellata di rifiuti in Lombardia mediamente costa 234€, mentre in Basilicata costa il doppio, 465€. Ci sono punte di oltre euro 500 in diverse Regioni: Liguria, Lazio, Abruzzo, Campania e Basilicata».

Anche a livello provinciale le differenze sono altrettanto ampie: «Il territorio provinciale in cui il costo medio per il servizio rifiuti è più elevato è Rieti (526€), seguito da La Spezia (520€) e Avellino (499€), mentre il costo più contenuto del servizio è in Lombardia, nelle Province di Lecco (209€), Mantova (210€), Bergamo e Como (219€)».

Come mai? «Le motivazioni, che andrebbero opportunamente indagate, possono essere di differente natura e legate, ad esempio, alla disponibilità o collocazione delle infrastrutture di smaltimento, al differente mix di utenze servite, o alle condizioni orografiche del territorio», spiega la Corte.

Un altro fattore plausibile – ma non indagato nell’analisi – a incidere sulle differenze Tari potrebbe essere l’assimilazione dei rifiuti speciali agli urbani, dato che finora dal 16 al 50% dei rifiuti urbani erano costituti da speciali assimilati, a discrezione dei singoli territori; una discrezionalità che sta andando però a scomparire dopo i recenti aggiornamenti normativi.

Su tutti, l’elemento più incisivo sembra quello infrastrutturale: dove a servizio della raccolta rifiuti c’è una dotazione impiantistica coerente e di prossimità, i costi pagati dai cittadini sono minori. Come spiega infatti la Corte, «migliori performance potrebbero essere in parte da attribuirsi ad una più accurata programmazione del servizio, in termini infrastrutturali, a livello regionale attraverso lo sviluppo di un migliore coordinamento coi territori locali».

Scendendo ancora a livello di dettaglio territoriale, la Corte documenta che «i Comuni a forte vocazione turistica con alto livello di benessere, bassa densità abitativa e con localizzazione prevalente in zone montane o litoranee, presentano il maggior livello di costo», pari a 400€/ton, ossia +26% rispetto al valore mediano nazionale; immediatamente dopo si collocano i Comuni montani localizzati prevalentemente lungo l’arco appenninico del centro-sud (395€). All’opposto, con un risparmio del 26% rispetto al valore mediano nazionale, sono i territori dei Comuni con medio-alto livello di benessere e attrazione economica localizzati nelle zone pianeggianti del nord-est (236€).

«Le cause di tali differenze fra cluster – argomenta la Corte – in parte sono attribuibili alle condizioni ambientali, non modificabili (ad esempio all’orografia del territorio, alla vocazione turistica che causa picchi di richiesta di servizio e caratteristiche del servizio particolari), in parte alla disponibilità di infrastrutture sul territorio (ad esempio la presenza e collocazione degli impianti di smaltimento, la  cui programmazione è di competenza di altre Amministrazioni) e in parte dalle modalità di gestione realizzate nei singoli territori comunali».

E qui si cade in una classica trappola all’italiana: mentre i Comuni da un lato chiedono più impianti per gestire i rifiuti (e abbassare la Tari), dall’altra quando si arriva a proporne la localizzazione sul loro territorio non di rado si mettono alla testa di sindromi Nimby e Nimto che ne impediscono la realizzazione.

Un paradosso che ne alimenta un altro, legato nello specifico alla raccolta differenziata: farla al nord contribuisce ad abbassare la Tari, mentre al centro e soprattutto al sud è solo un aggravio – dal punto di vista meramente economico, senza considerarne le positive ricadute occupazionali e ambientali – per le tasche dei cittadini.

«Al nord – rileva nel merito la Corte – maggiori livelli di raccolta differenziata hanno effetti benefici sulla spesa: -17% nei Comuni in cui la raccolta differenziata supera il 65% rispetto a quelli in cui non si raggiunge il 40% nel nord-ovest, dato che balza a -26% nel nord-est. Al centro e in misura più spiccata al sud la situazione è esattamente inversa: i costi aumentano del +3% al centro e addirittura dell’11% al sud. Tale situazione fa emergere un divario che dovrebbe essere ulteriormente indagato», ma nel frattempo sono a disposizione i dati sul “turismo dei rifiuti” che contribuiscono a spiegare il divario.

Secondo quelli messi recentemente in fila da Utilitalia, per trasportare le 2,7 milioni di tonnellate di rifiuti urbani trattati in regioni diverse da quelle di produzione, nel 2018 sono stati necessari 107 mila viaggi di camion, pari a 49 milioni di chilometri percorsi: ciò ha comportato l’emissione aggiuntiva di 31.000 tonnellate di CO2 e 75 milioni di euro in più sulla Tari (il 90% dei quali a carico delle regioni del centro-sud).

Come provare a invertire la rotta? Da un lato risulta indispensabile una migliore informazione e comunicazione ambientale in materia, a partire da tre verità banali quanto raramente raccontate: raccogliere i rifiuti costa – come del resto costa tenere pulita casa propria –, soprattutto se fatto tramite modalità complesse come la raccolta porta a porta; i rifiuti raccolti rappresentano “una risorsa” solo se a valle c’è un adeguato mercato di sbocco (cui dovrebbe contribuire in primis la Pa tramite gli acquisti verdi), altrimenti sono un disvalore da gestire; se tra raccolta e mercato non c’è una filiera impiantistica di prossimità per selezionare e avviare i rifiuti raccolti a recupero (o a smaltimento, a seconda dei casi), i costi crescono ulteriormente insieme al ricorso all’export.

Dall’altra, è evidente la necessità di una più incisiva programmazione da parte delle istituzioni pubbliche – con relativa assunzione di responsabilità in merito alle localizzazioni impiantistiche – per colmare il ritardo infrastrutturale che grava sulla gestione rifiuti in ampie fette del Paese. Un fronte sul quale è al lavoro il ministero della Transizione ecologica, tramite il Programma nazionale per la gestione dei rifiuti (richiamato anche all’interno del Pnrr) da redigere entro marzo 2022.

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