Il caro bollette sta mettendo in crisi anche l’industria italiana del riciclo

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Il caro bollette sta mettendo in crisi anche l’industria italiana del riciclo

Greenreport

Il caro bollette sta mettendo in crisi anche l’industria italiana del riciclo

L’economia circolare è un pilastro contro la crisi climatica, ma per tenerlo in piedi servono più rinnovabili

Di Luca Aterini

Dato che circa il 70% delle nostre emissioni climalteranti è legato all’estrazione, lavorazione e uso delle materie prime, un’economia più circolare è un prerequisito essenziale per la lotta alla crisi climatica in corso. Le difficoltà manifestate dal comparto italiano del riciclo di fronte al caro bollette rappresenta dunque un pessimo segnale su più piani.

«Economia circolare e transizione ecologica vengono collocate costantemente in cima all’agenda politica, ma i rincari in corso stanno soffocando le imprese che ne costituiscono il cuore pulsante – dichiarano da Assorimap, l’associazione che riunisce i riciclatori delle materie plastiche – un’impresa attiva nel riciclo della plastica nel dicembre 2021 ha registrato rincari in bolletta pari al +345% per la sola componente energia rispetto allo stesso mese del 2020 e +395% rispetto al 2019.  Se nel 2019 la bolletta di un’impresa del riciclo si aggirava mediamente sui 150 mila euro al mese, oggi arriva anche a 540mila. È quindi evidente che ci sia bisogno di azioni decise e strutturali, come sta avvenendo in altri Paesi europei: la Francia, per esempio, ha assicurato un contenimento del caro bollette entro il 4%. Il Governo italiano si muova in questa direzione, altrimenti accumuleremo un enorme gap di competitività su scala internazionale. Rischiamo di scontrarci con un amaro paradosso».

Un paradosso che non riguarda certo solo il riciclo della plastica, dato che anche l’Unione nazionale imprese recupero e riciclo maceri (Unirima) manifesta difficoltà simili tra le imprese attive nel riciclo della carta: «Occorrono azioni strutturali e di sistema, inserite all’interno di una visione strategica per affrontare un problema di ampia portata, che non pare destinato a esaurirsi in breve. Già oggi i numeri sono drammatici. L’incidenza del costo dell’energia elettrica per ogni tonnellata di materia prima recuperata dai rifiuti ha registrato un incremento pari al 111% in queste prime settimane del 2022 rispetto all’analogo periodo del 2021. Una vera e propria mannaia».

Per provare a capire le dinamiche in atto occorre partire dalla causa prima del caro bollette, ovvero gli enormi rincari delle materie prime vergini – in particolare combustibili fossili come il gas naturale – seguiti al rimbalzo economico in corso, soprattutto in un’Europa (e a maggior ragione in Italia) fortemente dipendente dall’import di gas russo.

Come spiegato già a fine 2021 su queste pagine da Michael Tamvakis, professore di Economia delle materie prime e finanza alla Bayes Business School, nell’attuale «contesto di prezzi del petrolio e del gas relativamente alti, avrebbe senso passare a materie prime seconde. Tuttavia, i prezzi elevati dell’energia significano anche input di costo più elevati per gli impianti di riciclaggio che usano l’elettricità, i cui prezzi sono anche influenzati dall’aumento generale delle materie prime energetiche. Pertanto, la risposta non è del tutto chiara».

Non nel caso italiano però, dove sta diventando sempre più evidente da che parte pende la bilancia, almeno per il comparto del riciclo. Se nell’immediato per le imprese energivore si può solo tamponare la crisi delle bollette attingendo dalla fiscalità generale o da altre entrate di gettito statale, la soluzione strutturale al problema è quella di sganciare il Paese dalla cronica dipendenza dalle fonti fossili.

Basti pensare che in Italia sono state presentate a fine 2021 (ma non ancora autorizzate) richieste per realizzare impianti solari e fotovoltaici pari ad un totale di circa 150 GW, e basterebbe realizzarne la metà per raggiungere gli obiettivi Ue sull’elettricità rinnovabile al 2030, con un risparmio annuale per la bolletta italiana di circa 50 mld di euro, senza dimenticare i vantaggi per clima e qualità dell’aria che respiriamo. Energia rinnovabile, che potrebbe essere venduta a prezzi bassi e stabili nel tempo facendo leva su strumenti come i Ppa.

Perché allora questi impianti rinnovabili sono fermi? Secondo Legambiente a causa di «normative obsolete, la lentezza nel rilascio delle autorizzazioni, la discrezionalità nelle procedure di Valutazione di impatto ambientale, blocchi da parte delle sovrintendenze, norme regionali disomogenee tra loro a cui si aggiungono contenziosi tra istituzioni. E la poca chiarezza è anche causa delle opposizioni dei territori che devono districarsi tra regole confuse e contraddittorie».

Contribuendo così a generare quelle sindromi Nimby dietro le quali troppo spesso si nasconde la politica, con la sua strenua rincorsa al consenso a breve termine e (dunque) l’incapacità a sopportare qualsivoglia dissenso. Una normativa più chiara, semplice e stringente potrebbe però aiutare a buttare il cuore oltre l’ostacolo.

«Nel Decreto legge “Recovery” approvato a fine 2021 il Governo si è impegnato ad individuare entro 180 giorni i criteri per la localizzazione delle aree per gli impianti da fonti rinnovabili, sulla base dei quali le Regioni avranno altri 180 giorni per identificare le aree. Si tratta – argomentano gli industriali dell’Emilia-Romagna riuniti due giorni fa nella Confindustria regionale – di un termine perentorio su cui iniziare a lavorare da subito. Già dal 2010 il Governo aveva dato questo onere alle Regioni, ma poco è cambiato da allora in termini di investimenti. Secondo le analisi di Confindustria l’iter autorizzatorio per gli impianti di produzione da fonti rinnovabili, incluso l’allacciamento alla rete elettrica, è mediamente di 109 mesi (9 anni) a livello nazionale.

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