Il potenziale inespresso dell’economia circolare italiana vale 98,9 miliardi di euro l’anno

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Il potenziale inespresso dell’economia circolare italiana vale 98,9 miliardi di euro l’anno

Greenreport

Il potenziale inespresso dell’economia circolare italiana vale 98,9 miliardi di euro l’anno

Politecnico di Milano: «Meno di 1 impresa su 2 ha fatto propria la sfida della circular economy, e ancora non è nemmeno a metà del percorso di trasformazione»

L’economia circolare italiana, nonostante un buon posizionamento nel contesto europeo, è ancora agli albori: il metabolismo economico nazionale digerisce qualcosa come 444 mln di ton di materie prime all’anno, ma il Cmu – ovvero il tasso di utilizzo circolare dei materiali, che indica la quantità di rifiuti raccolti destinati al recupero e reintrodotti nell’economia, risparmiando così risorse naturali – è al 19,3%. In altre parole l’80,7% della nostra economia ancora non è “circolare” ma incide sul consumo di risorse naturali vergini.

Soprattutto in un Paese come il nostro, di stampo manifatturiero ma povero di commodity, significa tenere bloccato un grande potenziale in termini di crescita economica oltre che di minori impatti ambientali.

«Se venissero adottate pratiche manageriali per l’economia circolare nell’industria italiana si genererebbero al 2030 circa 100 miliardi di euro annui, quasi il 4,5% del Pil nazionale», spiegano dall’Energy&strategy group della School of management del Politecnico di Milano, che ha presentato oggi la seconda edizione del Circular economy report.

Invece, di fatto «meno di 1 impresa italiana su 2 (il 44%, ndr) ha fatto propria la sfida della circular economy, e ancora non è nemmeno a metà del percorso di trasformazione».Al contempo la percentuale degli scettici, ovvero chi non ha adottato questi criteri e non intende farlo in futuro, è a oltre un terzo: 34%.

Sono questi i principali risultati emersi dal report, che condensa i dati di un sondaggio condotto su operatori di sei macrosettori economici – costruzioni, automotive, impiantistica, food&beverage, elettronica di consumo, mobili e arredo – insieme ai relativi approfondimenti.

«L’economia circolare è una prospettiva complessa – spiega Davide Chiaroni, direttore dell’Osservatorio sulla circular economy dell’E&S group – perché richiede un ripensamento dell’intero ecosistema di filiera, ma rappresenta una grande opportunità per realizzare nuovi investimenti, perché include una serie di comportamenti che limitano i rischi: di mercato, operativi, di business e legali. Per sintetizzare, non tutto ciò che è sostenibile è circolare, ma tutto ciò che è circolare ha un impatto positivo sulla sostenibilità».

Altre volte, invece, si riduce il concetto di economia circolare alle pratiche di riciclo e di gestione dei rifiuti, in particolar modo urbani, come peraltro accade anche all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

«Non è certo la direzione verso la quale auspicavamo ci si muovesse, perché di nuovo riduce tutto al tema del riciclo – commenta Chiaroni – Ci sono però alcuni aspetti positivi, almeno nelle previsioni di riforma prevista entro giugno 2022 che dovrebbero integrare concetti quali ecodesign, ecoprodotti, blue economy, bioeconomia, materie prime critiche».

Andando al cuore del rapporto, ovvero i risultati del sondaggio, in testa troviamo il comparto delle costruzioni con il 60% del campione che ha introdotto almeno una pratica di economia circolare, seguite da food&beverage (50%), automotive (43%), impiantistica (41%), elettronica di consumo (36%), mobili e arredo (23%): in media, il 44% degli intervistati, poco meno di 1 azienda su 2, mentre il 40% di chi non l’ha ancora fatto ha intenzione di porvi rimedio in futuro.

In sostanza, gli irriducibili contro l’economia circolare rappresentano ancora il 34%. Ma anche i progressi auto-valutati da tutti gli altri non lasciano grande spazio all’ottimismo: se si chiede alle imprese di valutare il livello raggiunto nella transizione verso l’economia circolare, il punteggio medio è pari infatti a 2,02 su una scala da 1 a 5, dunque una fase ancora iniziale.

Eppure chi investe nella circolarità migliora anche la propria performance economica, come confermano i dati raccolti dal Polimi.

Nel periodo 2016-2019, per gli adopters la crescita media del fatturato è stata del 6%, di poco inferiore a quella dei non adopters (7%); di contro, i primi hanno registrato una crescita media più marcata dell’Ebitda, 8% contro 5%. «Ciò dimostra che l’introduzione di pratiche manageriali per l’economia circolare, pur caratterizzate da alti costi di investimento, ha generato un beneficio anche economico per le imprese», si osserva nel report.

Normalmente i vantaggi riconosciuti sono legati al tasso di innovazione, al rafforzamento dell’immagine del brand e alla riduzione dell’uso di risorse; al contrario, le barriere principali all’adozione «sono rappresentate dall’incertezza normativa, dagli elevati investimenti e dalla relativa variabilità dei flussi di risorse».

Barriere che stanno frenando non poco il potenziale dell’economia circolare in Italia. Come documentano dal Polimi, ipotizzando di mantenere la stessa dimensione del mercato del 2019, si è calcolato – attraverso l’analisi di report e studi di settore – che «l’adozione di pratiche manageriali per l’economia circolare nei sei macrosettori presi in esame potrebbe, agendo sui costi, liberare al 2030 un potenziale economico di 98,9 miliardi di euro annui, in particolare 37 nelle costruzioni, 20,2 nel food&beverage e 18,2 nell’automotive. Rispetto all’adozione di ciascuna pratica manageriale, il contributo maggiore può derivare dal Take back system (circa 24,7 miliardi di euro di risparmio), dal Design for remanufacturing/reuse e dal Design for disassembly (circa 19,8 miliardi di euro ciascuno)».

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