Intervista al ministro della Transizione ecologica Cingolani “Via la burocrazia ripartiamo da sole e vento”

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Intervista al ministro della Transizione ecologica Cingolani “Via la burocrazia ripartiamo da sole e vento”

La Repubblica

Intervista al ministro della Transizione ecologica

Cingolani “Via la burocrazia ripartiamo da sole e vento”

di Luca Fraioli

«Il nome Recovery Plan dà l’idea che stiamo mettendo una toppa a qualcosa che è andato storto.

Preferisco Next Generation EU e vorrei che agli italiani arrivasse un altro tipo di messaggio: questo è un progetto più ambizioso della semplice ripresa post pandemia, vuole impostare il futuro del Paese per le generazioni a venire».

Dopo settimane in cui ha evitato di scendere nei dettagli («Mi sembrava corretto attendere che il presidente Draghi illustrasse il Piano al Parlamento»), il ministro Roberto Cingolani accetta di raccontare in cosa consisterà la sua transizione ecologica: stop al carbone il prima possibile, boom di energia prodotta da rinnovabili nei prossimi dieci anni fino a coprire oltre il 70% del fabbisogno di elettricità, sì al gas naturale come misura tampone fino alla totale autonomia dai combustibili fossili, no ai termovalorizzatori per il trattamento dei rifiuti, nì alla cattura e allo stoccaggio della CO2 negli ex giacimenti. Con all’orizzonte una economia basata sull’idrogeno. «Ma non sarà un passaggio istantaneo, ci vorranno anni. Sarà una transizione».

Ministro Cingolani, iniziamo dai soldi. La Missione 2, Rivoluzione verde e transizione ecologica, avrà il budget più alto del Pnrr, 59 miliardi di euro. Come saranno investiti?

«Circa 5 miliardi saranno dedicati ad agricoltura ed economia circolare, 15 alla tutela dei territori e delle risorse idriche, 15 all’efficienza energetica degli edifici e quasi 24 alla transizione energetica e alla mobilità sostenibile. Gli ultimi due capitoli sono il fulcro del cambiamento che vogliamo innescare con queste misure».

La Ue ha confermato di voler ridurre del 55% le sue emissioni di anidride carbonica entro il 2030.

L’Italia come può riuscirci?

«Installando 65-70 gigawatt di energie rinnovabili entro i prossimi dieci anni (oggi sono circa 54 gigawatt, ndr). Nel 2030 il 70-72% dell’elettricità dovrà essere cioè prodotta prevalentemente da centrali eoliche o fotovoltaiche».

Come saranno spesi i 24 miliardi della transizione energetica?

«L’attuazione va ancora fatta, ma è prevedibile che ci saranno incentivi per le rinnovabili più sperimentali, come l’eolico offshore o il fotovoltaico per l’agricoltura. Poi ci sarà il grande capitolo della semplificazione per sbloccare le gare già avviate per nuovi impianti di fonti rinnovabili, ma a cui nessuno partecipa”.

Il 72% dell’elettricità italiana da rinnovabili tra dieci anni. E il 28% restante?

«Non possiamo certo farlo con le dinamo delle biciclette. Lo produrremo con gas naturale».

Il gas è un combustibile fossile e contribuisce all’effetto serra.

“Sì, ma nella combustione emette molta meno CO2 rispetto al carbone, che è il nostro nemico numero uno. Il gas, inoltre, darà stabilità alla rete elettrica: un sistema basato su eolico e solare è per definizione discontinuo. Se non ci sono sole e vento, non c’è energia. In quei casi potrà essere usato il gas».

Ma non doveva essere l’idrogeno a darci l’energia del futuro?

«Non possiamo perdere il treno dell’idrogeno, e infatti destineremo 3,4 miliardi del Pnrr alla ricerca in questo settore. Ma oggi non siamo pronti: se degli extraterrestri sbarcassero sulla Terra con tutto l’idrogeno dell’Universo, non sapremmo cosa farcene, come stoccarlo, come trasportarlo, come utilizzarlo. E comunque per produrre idrogeno, cioè per estrarlo dall’acqua, ci vuole energia: sarebbe paradossale usare i combustibili fossili. Anche per questo è cruciale accelerare sulle rinnovabili».

Capitolo rifiuti: nel Piano non si fa accenno ai termovalorizzatori. Come mai?

«La Commissione europea non li vuole e nel Pnrr sono stati scoraggiati. Tuttavia se le iniziative di economia circolare non dovessero funzionare, in alcuni casi specifici una riflessione si potrà fare».

Come pensate di ridurre l’impatto dell’agricoltura italiana sul clima?

«Tra 6 e 7 gigawatt di rinnovabili istallate saranno destinati a rendere l’agricoltura autonoma e sostenibile dal punto di vista energetico. E immaginiamo incentivi per sostituite i trattori diesel con trattori a gas».

Dai trattori alle auto: come ci muoveremo in città?

«Quando il 72% dell’elettricità sarà prodotta con zero emissioni allora avrà senso rendere di uso comune la mobilità elettrica. Che senso ha guidare un’auto a batteria se per ricaricarla si brucia petrolio o carbone? Nel frattempo si dovrà lavorare per non farsi trovare impreparati, installando migliaia di colonnine di ricarica».

Ha incontrato i manager di grandi aziende e i vertici delle associazioni ambientaliste. Che reazioni si aspetta al Pnrr da parte loro?

“Ho scoperto che condividono la visione generale, anche se poi possono avere opinioni diverse sui dettagli. Sono ottimista”.

Un terreno di scontro sarà la tecnologia della cattura della CO2 e il suo stoccaggio in ex giacimenti. E’ un progetto previsto dal Pnrr?

«Sulla cattura e stoccaggio della CO2 va detto che persino il presidente americano Biden la sta rilanciando.

Ci tengo però a precisare che nel Pnrr non ci sono i singoli progetti, con nomi e cognomi: i fondi europei andranno a gara e ci sarà qualcuno che deciderà quali progetti finanziare».

Chi sarà a decidere?

«La governance che deve ancora essere definita. Alcuni di questi fondi saranno gestiti dal governo con le Regioni o i Comuni, altri saranno messi a bando. Dipenderà dai casi: se c’è una riconversione tipo Ilva ci vorrà un accordo tra le parti interessate, per comprare 100 autobus a idrogeno si farà una gara».

Ha rivendicato l’esigenza di affiancare transizione ecologica e “transizione burocratica”. Perché?

«Torniamo alle rinnovabili: già oggi in Italia programmiamo di installare 6 gigawatt l’anno e, a causa del lungo iter autorizzativo, alla fine ne installiamo solo 0,8. Di questo passo per arrivare ai 70 gigawatt necessari a ridurre del 55% le emissioni ci metteremo 100 anni, altro che 2030».

Ma non c’è il pericolo che questo si traduca in un azzeramento dei controlli su appalti, gare, cantieri?

«Nessuno vuole trovare scorciatoie, però i tempi devono essere certi. Si può far danno al Paese non solo facendo male, ma anche perdendo tempo. Inoltre, se in Spagna si presentano centinaia di aziende nelle gare per le rinnovabili e da noi pochissime, scoraggiate dalla burocrazia, significa che loro possono scegliere i migliori, noi dobbiamo accontentarci di chi c’è».

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