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Il riciclo in Italia continua a crescere, ma mancano sostegno politico e sbocchi di mercato

Ronchi: «Servono misure incisive per rafforzare la domanda materie prime seconde ed interventi strutturali per affrontare il forte aumento dei costi dell’energia»

Di Luca Aterini

Con Edo Ronchi, probabilmente il miglior ministro dell’Ambiente che questa Repubblica ancora oggi ricordi, arrivava venticinque anni fa il Dlgs 22/97: uno strumento normativo che ha cambiato radicalmente i modelli di gestione rifiuti nel nostro Paese, recependo tre direttive europee e strutturando la raccolta differenziata.

Nel 1997 la raccolta differenziata dei rifiuti urbani era al 9,4 % mentre l’80% dei rifiuti finiva in discarica. Al contempo solo il 21% dei rifiuti industriali veniva riciclato e il 33% finiva in discarica. Oggi come vanno le cose? Sicuramente meglio di allora, ma è difficile anche solo offrire una risposta precisa.

Il rapporto Riciclo in Italia 2022, realizzato e presentato oggi dalla Fondazione sviluppo sostenibile guidata proprio da Ronchi, spiega che «nel 2020 la raccolta differenziata dei rifiuti urbani è arrivata al 63% e lo smaltimento in discarica è sceso al 20%, mentre il riciclo dei rifiuti industriali ha superato il 70% e lo smaltimento in discarica è sceso al 6% […] L’Italia, nel 2020 ha riciclato il 72% di tutti i rifiuti, urbani e speciali-industriali, un primato europeo (53% la media Ue e 55% quella della Germania)».

Neanche un mese fa il rapporto L’Italia che ricicla, elaborato dall’associazione di categoria Assoambiente, riportava dati sempre lusinghieri ma diversi, collocando l’Italia al «primo posto a livello europeo per tasso di avvio al riciclo dei rifiuti (sia urbani che speciali), rispetto al totale gestito. Il dato italiano, pari all’83,2% (riferito al 2020, ultimi dati disponibili), è decisamente superiore non soltanto alla media Ue (39,2%), ma anche rispetto ai maggiori Paesi dell’Unione: Spagna (60,5%), Francia (54,4%) e Germania (44%)».

Dove sta l’errore? Con tutta probabilità a monte dei due rapporti, visto che in questo campo non è semplice paragonare i dati elaborati in modo diverso nei vari Paesi, soprattutto se – come in Italia – la certezza dell’informazione in fatto di rifiuti è un’utopia: basti pensare che i dati ufficiali sui rifiuti speciali non pericolosi (la frazione in assoluto più ingente) sono per il 49,8% frutto di stime.

Oppure si guardi al flusso di rifiuti più ingente, quello dei rifiuti inerti da costruzione e demolizione: i dati ufficiali (Ispra) mostrano che circa il 78% dei rifiuti inerti viene recuperato, ma come spiega Legambiente il 78% «indica solamente che questi rifiuti sono passati, e quindi sono stati registrati, in un apposito impianto. Si tratta quindi di materiali recuperati ma poi stoccati senza alcun reimpiego effettivo. Purtroppo la verità è che gran parte dei rifiuti da C&D non è dichiarata e viene ancora oggi abbandonata illegalmente sul territorio. Anche perché nelle statistiche ufficiali solo le imprese di una certa dimensione vengono incluse».

Se queste sono le condizioni di raccolta dati, è evidente che le classifiche internazionali hanno affidabilità parziale. Su un dato però, fornito direttamente da Eurostat, sembra esserci comune accordo: nell’Ue il tasso di utilizzo di materia proveniente dal riciclo (Cmu) è arrivato al 12,8% nel 2020, mentre l’Italia ha raggiunto il 21,6%. Ovvero, il 78,4% della nostra economia non è circolare.

«Il settore del riciclo, pilastro fondamentale di un’economia circolare – commenta Ronchi – è strategico per non sprecare risorse preziose, per non riempire il Paese di discariche, per recuperare materiali utili all’economia e ridurre le emissioni di gas serra. Per questo in un momento di congiuntura economica negativa servono misure incisive per rafforzare la domanda di mps, le materie prime seconde prodotte col riciclo ed interventi strutturali per affrontare il forte aumento dei costi dell’energia che per l’industria del riciclo costituiscono la quota maggiore dei costi di produzione».

Come intervenire? Per incrementare gli sbocchi dei mercato delle mps, il rapporto suggerisce «l’introduzione di un’aliquota Iva agevolata per il materiale riciclato compensata con un aumento del prelievo sui rifiuti smaltiti in discarica o con inceneritori; l’introduzione per gli appalti pubblici verdi (Gpp) e i relativi criteri ambientali minimi (Cam) l’obbligo di acquisire di quantità minime stabilite di materiale riciclato impiegabile per gli utilizzi previsti nel progetto; il rafforzamento dell’utilizzo del materiale riciclato nei settori produttivi con accordi di settore».

Per affrontare gli extracosti energetici, invece, si parla di «introdurre possibili innovazioni per produrre ulteriori miglioramenti di efficienza e di risparmio di elettricità e calore, la semplificazione e l’accelerazione  delle procedure per utilizzare fonti rinnovabili di energia autoprodotta; la semplificazione delle procedure per la valorizzazione termica dei residui dei processi di riciclo (come nel caso della termovalorizzazione, ndr) per generare calore ed elettricità da impiegare negli stessi  impianti».

Quante di queste opzioni siano concretamente percorribili con la vigente maggioranza parlamentare è però difficile a dirsi. Basti osservare che il Governo Meloni, insediatosi da pochi mesi, sta già tradendo tutti gli impegni previsti sull’economia circolare a partire dalla legge di Bilancio 2023.

Il rapporto dedica infine un focus alla proposta di Regolamento sui rifiuti ed i rifiuti di imballaggio presentata nelle scorse settimane dalla Commissione Ue, ritenendola «sbilanciata verso un modello basato sul deposito cauzionale per la gestione degli imballaggi, rischiando così di penalizzare il sistema nazionale italiano di gestione dei rifiuti d’imballaggio, che opera da 25 anni» basandosi sul Contributo ambientale Conai (Cac).

Un tema molto dibattuto nel mondo industriale e quello della società civile, senza comunità di vedute: ieri ad esempio la vasta coalizione A buon rendere, che assomma associazioni ambientaliste e non – da Legambiente ai Comuni virtuosi, da Greenpeace ad Altroconsumo, dal Wwf a Oxfam – è scesa in campo a sostegno proprio del deposito cauzionale.

In particolare, il rapporto della Fondazione sviluppo sostenibile avanza sei proposte di modifica. Qualche esempio? «Aumentare le quantità di imballaggi riutilizzate con sistemi decentrati e flessibili di restituzione come quelli che si stanno utilizzando, evitando la rigidità, molto più costosa, dei sistemi centralizzati di restituzione basati sul deposito cauzionale, visto che in Italia si riutilizzano già 2 milioni e 340 mila tonnellate di imballaggi, il 16% del totale. Escludere la sostituzione di imballaggi monouso in carta, cartone e plastica biodegradabile e compostabile – se riciclati con alte percentuale almeno dell’85% – con  imballaggi multiuso fatti con materiali non rinnovabili. Stabilire che, solo se lo Stato membro non raggiunge entro il 2030, la raccolta del 90% di bottiglie in plastica monouso o di contenitori per bevande in metallo monouso, indipendentemente dalle modalità di raccolta, è obbligato a  istituire  un sistema di restituzione con deposito».

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